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Diario di Enzo     - pagina 3 -

I primi lavori (14 anni).

 

Dopo l’ultima malefatta venuta all’orecchio di mio padre (non ricordo se fosse il “prelievo” di un paio di salami dalla cantina di zio Nino, o per il taglio di una rete di recinzione di una vicina fattoria) questi venne nella determinazione di mettermi al lavoro.

 

Cominciò quindi con lo svegliarmi alle due di notte per portarmi con se al forno.

 

Tentò di farmi impastare, ma gli sfilatini preparati da me, cuocendo, invece che sopra si aprivano sotto; mi diedero da portare le “tavole” con il pane da sistemare nella sala lieviti ma erano più i pezzi di pasta che mi perdevo di quelli che arrivavano a destinazione; mi fecero sistemare gli sfilatini nelle ceste per la distribuzione, e i negozianti reclamavano che molti di questi arrivavano privi del “culetto”; mi fecero portare le ceste alle “poste” con il triciclo, e rovescia il carico nel fango della strada.

 

Alla fine, per disperazione, mi cacciarono via. E devo dire che zio Checco lo fece malvolentieri perché, malgrado tutto, ero un tipo simpatico e spassoso da starci insieme.

 

Con il fatto che molti uomini erano ormai in divisa (1940), fu facile a mio padre trovarmi un’altra occupazione. La prima fu quella di fattorino in bicicletta di una avviata cartoleria.

 

Con il senso di orientamento che tuttora mi ritrovo, non so come abbia fatto, per quasi un anno, a far recapiti in tutta Roma, senza perdere la via di casa.

 

Passai poi a fare l’usciere presso una ditta privata di import-export.

 

Unici maschi oltre me, l’anziano collega e l’occhialuto direttore. Le impiegate erano tutte di sesso femminile giovani e carine. Un vero paradiso con le Uri. Ma anche questo piacevole interludio finì.

 

Dopo aver lavorato alcuni mesi in tre diversi alberghi di Roma come ragazzo di portineria e telefonista e fatta una breve (per fortuna) pausa come manovale con mio padre, mi ritrovai nel 1943 a fare il cameriere ai piani nell’albergo Massimo D’Azeglio dei fratelli Bettoja.

La guerra (17 anni). Ed arrivò anche l’8 settembre 1943.

 

Pochi giorni dopo cominciarono isolati combattimenti in varie zone di Roma, fra le truppe italiane fedeli agli ordini (non certo chiari) del M.llo Badoglio, e le truppe tedesche. Il comando tedesco, infatti, aveva considerato l’armistizio stipulato unilateralmente dal governo italiano con gli alleati un vero e proprio tradimento nei propri confronti e aveva reagito occupando militarmente i posti chiave e combattendo chi opponeva resistenza.

 

Fu così che una mattina, gli abitanti della zona dove lavoravo, furono svegliati dal rumore dei colpi d’arma da fuoco che militari italiani attestati su via Cavour, verso la stazione, con un cannoncino anticarro, sparavano contro i militari tedeschi, che rispondevano, appostati all’altro capo della via.

 

 

La battaglia proseguì per l’intera giornata con colpi di cannone e raffiche di mitra, rallentò la notte e riprese al mattino seguente. Nel pomeriggio inoltrato, i clienti dell’albergo che, per fortuna, al momento, erano pochi, entrarono in crisi. In primo luogo, la paura, in secondo, a breve lunghezza, la fame, facevano a molti sembrare prossima la propria fine. In effetti non avevamo più niente da mangiare: le già esigue scorte alimentari, si erano rapidamente esaurite.

 

Il direttore del Massimo d’Azeglio si era perciò messo in telefonicamente in contatto con l’albergo Atlantico, che era di fronte al nostro, per chiedere se avessero viveri da cederci. I viveri c’erano ma non c’era nessuno disposto a portarli.

Analoga la situazione dalla nostra parte. La notte passò. I colpi, specie da parte degli italiani, si facevano sempre più radi (sapemmo poi che stavano finendo le munizioni), la fame, invece, specie per me, si era fatta intollerabile.

 

Fu così che mi offrii volontario per andare a ritirare la cassetta di viveri che per noi avevano preparato nell’altro albergo. Mi munii di un tovagliolo da agitare come bandiera bianca, e un signore, che conosceva il tedesco mi insegnò come dire “non sparate”. Sventolando il tovagliolo e gridando alternativamente agli italiani e ai tedeschi (che nel frattempo si erano notevolmente avvicinati) la frase: “non sparate”, attraversai la strada, presi la cassetta che pesava maledettamente, feci il percorso inverso e rientrai senza fiato al Massimo d’Azeglio.

C’erano tutti ad attendermi e gli abbracci (delle donne) e le strette di mano (degli uomini) mi tennero occupato per un po’. Poi, il signore che sapeva il tedesco, nel silenzio che seguì, tenne a dirmi che era veramente meravigliato che i tedeschi non m’avessero steso. Certo, perché io avevo ripetutamente gridato loro non “nix schissen” (non sparate) come lui mi aveva insegnato, ma “nix schassen” che sembra voglia dire “non cacate!”.

Forse, pensai, erano rimasti così sbalorditi da tanta sfacciataggine che si erano dimenticati di spararmi addosso.

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